Sagra della Patata 2.0

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Opera di luce esposta alla XXVII Sagra della Patata tenutasi a Oreno, come sempre, frazione di Vimercate (MB) decisamente caratteristica.

Da ben ventisette anni in quel di Oreno, verso metà settembre per un intero fine settimana si svolgono mangiate esagerate, e non solo a base di patate come sareste portati a pensare, accompagnate a goliardiche bevute. Ma sabato sera oltre alla Patata e alla birra c’era l’arte ad allietare noi brianzoli (io mi includo solo perché sono nata a Vimercate). Purtroppo non sono riuscita a cogliere il nome dell’autore dell’opera in foto, era troppo buio. Ma quest’anno si è trattato di un evento che pullulava di dipinti, sculture, di Artigianato con la A maiuscola. Un fiorire di creazioni che ti catturavano. Notevoli pure certe bambole create con la tecnica del reborning, ma queste erano orribili per la verità. Bambini più che bambolotti, troppo realistici per i miei gusti, in una culla illuminata da una luce eterea sul blu, a coprirli dei suggestivi veli. Una donna vestita alla maniera medievale in piedi a cullare un bambolo-bambino. Pareva una scena dell’orrore.

Ma a parte questo non ve la potete perdere la Sagra della Patata di Oreno. Il paese è così gremito di genti che fatichi a camminare. Bancarelle ad ogni angolo, profumi di cibi dolci e salati a tentarti, musiche e spettacoli che rimandano al medioevo.

Ma quello che davvero colpisce in Brianza è che le persone ti parlano. Sì, qui a Bergamo mi stavo disabituando a scambiare due parole con un cristiano. E a proposito di eventi, c’è stata la notte bianca a Bergamo lo scorso venerdì sera: la città pressoché deserta, qualche attrazione che nessuno si filava (l’apice è stata un’esibizione di alcuni giovani che praticavano le arti marziali più spettacolari, ad alti livelli, ma su canzoncine simili a sigle di cartoni animati), ma il punto sono le persone. Persone a passeggio, distratte o assenti. Annoiate. Vecchie. Non ho trovato nulla di realmente interessante, ed è un peccato perché Bergamo meriterebbe molto di più. Abitanti diversi per cominciare (ah ah ah). Meglio precisare che scherzo, altrimenti il mio ragazzo si offende.

Comunque, l’anno prossimo dovete farlo un salto a Oreno ad assaggiare la patata. Io non mancherò. Come si dice, è un must.

Nuovi piccoli progetti. Parte 1.

Con il mio risveglio e il mio ritorno in società, è tornata anche la voglia di imparare cose nuove e riscoprirne altre.

Per esempio, da appassionata d’arte quale sono, mi è sempre piaciuto dipingere e disegnare. Evidentemente qualcosa di buono dalla mia famiglia l’ho ereditato: mamma pittrice, zio e nonno pittori, pure mia nonna si dilettava nel disegno, piccoli omini e donnine nudi tra le pagine dei libri di mio nonno. Ricordo che quelle cose mi sconvolgevano e al tempo stesso mi incuriosivano, mentre mia nonna si divertiva come una pazza, dava vita a quei disegni osceni raccontandomi le storie più goliardiche. Una famiglia normale…
Potrei davvero considerare l’idea di procurarmi tele, colori e pennelli, che prima tenevo in casa in abbondanza, ma poi mia madre lasciando casa si è portata via tutto, come mi sarei dovuta aspettare. Già sono a secco sparato, aka spicciolata, aka al verde ma direi più verde erba bruciata, in più mi toccherebbe pure affrontare questa spesa. Cosa vuoi che sia, dite voi. Per me è. Ed è molto, quindi vedrò se farmi riportare a casa qualcosa dalla mia genitrice, in modo tale da dare forma tangibile alle mie idee una volta tanto.

E poi ieri, come una donna che vuole fare mille cose ma non sa bene esattamente quali, ho scaricato un’applicazione sul telefono che mi consente di ascoltare tracce audio tradotte dall’italiano al tedesco e poi ripeterle. Il tedesco già lo conosco, ma ho poco modo di parlarlo, ancor meno di scriverlo (diciamo che le uniche occasioni si limitano al cazzeggio con la mia collega che lo mastica). Quindi potrebbe essere un buon modo per rispolverarlo. Mi sono procurata anche alcune riviste, le leggo ad alta voce nei tempi morti. Non so perché stia facendo questo, ma sento che nutre il mio spirito e soprattutto mi mantiene in allenamento il cervello. Ultimamente l’ho trovato piuttosto rallentato, e non è un’esagerazione. I pensieri fissi, le ossessioni per così dire, ti avvelenano e ti paralizzano. Mi piacerebbe fossero ossessioni dovute a una mia fragilità, invece sono ossessioni dovute a eventi non contingenti, tangibili e incancellabili, perciò che volente o nolente mi accompagnano sempre. Devo trovare modi per metterle a tacere, o meglio trasformarle.
Dunque:

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È previsto anche un viaggio in Germania con la mia metà. Ovviamente solo nella mia immaginazione, non ho ancora organizzato. Gliene ho parlato. Sarebbe la mia terza visita in Teteschia, voglio rivisitare Berlino con una coscienza differente da quella di anni fa, ero piccola. Per vedere l’effetto che fa.

Ho notato ultimamente la mia poca propensione al sogno. Non sono una persona così, sognare prima era naturale. Cinque minuti di sogno, cinque di realtà. Sto esagerando forse, ma comunque ho reso l’idea. Mi do da fare per recuperare questa parte di me, per recuperare anzi tutte le parti di me. Non so se sia possibile solo attraverso l’impegno, o se serve una folgorazione particolare, ma ci provo.

Ritornare dopo una scomparsa.

Tachete. Tà-ke-te. Dopo una lunga assenza, il ritorno. Cavoli, quasi un anno ora che guardo bene.
Neanche avevo cominciato, che già me n’ero andata. Non si fa proprio così, eh no. Quei pochi che avevano iniziato a seguirmi avranno sentito tantissimo la mia mancanza. Beh in realtà ho dovuto lavorare molto su me stessa. Su tutta la mia vita in generale, e comunque… baustelle (fa più figo di “work in progress”).

Sapete che ora bacio anche in pubblico? Sì, ma non troppo. In media stat virtus. E io virtuosa sono. Ma non pensate abbia lavorato su cose di questo calibro, non si giustifica un’assenza in questo modo. Altrimenti è come presentarsi al liceo davanti alla cattedra del prof dicendo che è morta la venticinquesima nonna.

Dai, vi lascio con alcune delle foto scattate a Nizza, ultima mia meta vacanziera, così vi fate un viaggetto e un po’ me lo rifaccio anch’io.

Uno dei tanti vicoli di Nizza Vecchia.

Uno dei tanti vicoli di Nizza Vecchia.

Verso il centro.

Place Massena.

Place Massena.

Non servono didascalie.

Non servono didascalie.

L'interno di un negozio tipico della Nizza Vecchia.

L’interno di un negozio tipico della Nizza Vecchia.

Che cos’è il finto shopping.

Stasera dopo il lavoro vado a fingere di fare shopping.
Fingere di fare shopping è un’attività abbastanza impegnativa, sembra semplice ma richiede una certa dose di pazienza, ottimismo e accettazione di non concludere assolutamente nulla. Insomma: perdere tempo all’ennesima potenza, ma credendo di fare qualcosa di davvero divertente.

Tutte le donne fanno shopping. Anche gli uomini fanno shopping. Ma quello che davvero contraddistingue gli uomini e le donne che fanno shopping è lo SCOPO: se gli uomini fanno shopping per comprare ciò che serve e alla fine comprano, la stessa cosa non è così scontata per le donne. Le donne hanno infatti quell’amabile capacità di girovagare fingendo la volontà insaziabile di fare mille compere, e poi tornano a casa con uno smalto di Kiko. Guardano decine di centinaia di migliaia di milioni di vetrine e sorridono, sgranano gli occhi, esclamano all’amica malcapitata o anch’essa amante del finto shopping: “CHE BELLOOO! La prossima settimana lo compro, ricordamelo eh!”, e passano oltre, verso la prossima scintillante vetrina.

Le più temerarie, seppur senza un euro in tasca, varcano anche la soglia del negozio. Armate fino ai denti di amiche o semplicemente di una dose massiccia di masochismo e buon tempo, provano abiti su abiti e scarpe di tutti i tipi che non compreranno mai, solo per il gusto di sentirsi donne fino in fondo. Per risollevarsi il morale, magari. Invece poi tornano a casa incazzate nere, perché gli abiti erano stretti, perché i camerini erano pieni, perché non avevano abbastanza soldi, e perché si son lasciate scappare un affare I-M-P-E-R-D-I-B-I-L-E. Che disdetta. E uscire poi dal negozio constatando che tutti gli altri hanno almeno una borsa in mano e che quindi loro ce l’hanno fatta. Che atrocità.

Ma ci sono anche i lati positivi del finto shopping, e generalmente riguardano tutte quelle donne che non hanno un cazzo di meglio da fare: si bruciano calorie camminando, si passa il tempo, ci si sfoga incazzandosi, ci si incazza sfogandosi, ci si consola poi col gelato e l’amica, o con un menu da McDonald’s (perché è quasi tappa obbligata, e poi è ovunque ci siano negozi).

Questo finto shopping è sfiancante. E stasera non risparmierà neppure me.

L’amore oggi non è social.

Che poi social dovrebbe significare “sociale”, ad oggi almeno. Allora ditemi come si può definire l’amore oggi SOCIAL. Social un cazzo. E amore un cazzo. Ha tutta l’aria di essere asocial all’ennesima potenza, inesorabilmente alienante, la quintessenza della misantropia e dell’individualismo.

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Comunque adesso sto solo parlando della mia personale visione dell’amore (degli altri), sto a rosicà in tre parole. Però non credo di aver torto del tutto. Vediamo. Innanzitutto adesso bisogna iscriversi ai siti di speed dating o come li chiamano, insomma bisogna CONNETTERSI per trovare compagnia. Non crediate che stia biasimando qualcuno, l’ho fatto anch’io, e non è che ne vada così orgogliosa. È un po’ da sfigatini trovare l’anima gemella sui social, e, diciamolo, io so essere proprio sfigatina quando voglio mettercela tutta. E quindi non potevo certo farmi mancare l’esperienza dell’amore social, che cavolo. Si vive una volta sola dopotutto.

L’amore social è proprio una ciofeca d’amore, perché:

  1. uno dei due si infatua, nella fattispecie tu, e l’altro no, e hai passato ore a prepararti e prima di uscire ti sei detta “Che figa che sono oggi! Dovrò piacergli per forza!”, e invece niet.
  2. O magari nessuno dei due si infatua e hai fatto un buco nell’acqua, anche in questo caso hai passato ore a prepararti e ti sei detta “Che figa che sono oggi! Dovrò piacergli per forza!”, e invece – daje –  niet, ma almeno nemmeno lui è piaciuto a te.
  3. Oppure si infatuano entrambi e poi si sposano, ma è una possibilità oltremodo rara. A meno che i due in questione non abbiano sessant’anni, ma oggigiorno sono più sgamati i sessantenni dei ventenni, non ci pensano nemmeno. Solo a Uomini e Donne, sezione Over.

Lasciamo perdere il trovare l’amore social, forever and ever. Piuttosto parliamo di chi l’amore ce l’ha già e poi lo trasforma in amore social. E forse è pure peggio. Capita a tutti di avere coppiette su fb che si scambiano gli stati più melensi dell’intero creato, e poi devi per forza vomitarti addosso dallo sdegno. Una ridicola indignazione s’impossessa di voi ed esclamate, come navigati sociologi: “Ma che schifo! Ma si può una roba così al giorno d’oggi?”. Beh ma il tempo delle lettere da latte alle ginocchia non è mica finito: adesso le lettere sono gli stati social. Bello eh. Molto romantico. Soprattutto quando gli altri si fanno i cazzi vostri. E poi litigare su facebook, o a colpi di “twitter”. Desiderabilissimo.

Che pochezza. L’amore oggi non è social proprio per niente, si finge tale. In realtà creiamo un nostro profilo per interagire con l’altro, ma per finta: è l’esposizione massima dei nostri attributi, ma solo per nutrire l’ego. Io sono così, io faccio questo, io faccio quello, a me piace quello e quell’altro. Ma queste cose non dovrebbero uscire in seguito? Il bisogno di anticipazione, di mettere le mani avanti, di mettere in vetrina pregi e difetti prima del tempo mi fa rabbrividire. E non si avvicina minimamente al social.

BACINGIRO. L’arte del bacio senza vergogna.

Può darsi che voi non proviate imbarazzo nell’esternare affetto, amore, passione – quello che volete – attraverso il bacio, ovunque voi siate, con chiunque siate. Ed effettivamente che vergogna vuoi provare a baciare una persona, per esempio, sperduti in un campo? Non vi vede nessuno. Chissenefrega, no? Io faccio fatica, e non poca. Invidio chi si avvicina all’altro con nonchalance, con lo sguardo mezzo ingrifato mezzo sognante, gli occhi a cuore e le labbra protese e muah, un limone partito così, quasi senza volerlo. E magari pure bis. Con tanta naturalezza che dici beati voi. Oppure urgh e bllll, in qualche caso.

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(una scena dal film “French Kiss” del 1995, con Meg Ryan e Kevin Kline)

Forse non ce l’ho nel dna. Ma mi sono esercitata (con la fantasia), perlomeno quando nessuno mi vede. Il punto è che – paradossalmente – mi vede l’altro. Non solo mi vede, ma mi guarda stupito afferrargli il braccio, avvicinarmi a lui e sforzarmi indicibilmente di lasciarmi andare. Di sembrare una persona normalissima che sa come si fa. Mica poco eh. Mica pizza e fichi. Mica vino e tarallucci (no, questo non c’entra).

In ogni caso ciò accade solo fuori dalle mura domestiche, o qualsivoglia mura per la verità. Intendo la mia occasionale disabilità nei bacingiro. Sarà che son gli altri a mettermi a disagio quando lo fanno (è sempre colpa degli altri). Dovrei vivere in Russia, dove baciarsi in pubblico è sconveniente, almeno così ho sentito.

Comunque la cosa più imbarazzante è riuscire a baciare l’altro durante una bella passeggiata, con quella nonchalance che in questi casi è sempre richiesta, ed andarne orgogliosissima, e poi nel saltare un piccolissimo fosso, ma davvero un insignificante fosso, sprofondare nel fango nemmeno fossero sabbie mobili, e rischiare di cadere faccia a terra irrimediabilmente. Scommetto che a voi non è mai capitato. A me sì, pensa. E lì capisci che ci hai messo davvero troppe energie in quel bacio, che hai fatto del tuo meglio, e che ora è tempo di un meritato time out. Fino al prossimo tentativo.

Perché “fare le cose bene”. Storia del Don Giuseppe.

No, in realtà perché FATE le cose bene. Una frase, una storia. Davvero troppo lontana e troppo poco interessante, ma ve la racconto lo stesso.

I miei genitori un giorno qualunque della mia infanzia decisero di farmi frequentare il catechismo. Si sa, un tempo era molto in voga quest’usanza dell’insegnamento cattolico, come viene chiamato invece oggigiorno (credo). Ma forse anche oggi va alla grande, a ben pensarci. Al catechismo ebbi modo di conoscere IL (al nord oltre al catechismo era ed è tutt’ora in voga l’articolo davanti ai nomi propri, lo sapete) Don Giuseppe. Che detto così sembra più il nome di un capo mafia, ma tant’è. Si chiamava così e ce lo facciamo andare bene. Il Don Giuseppe era un caro parroco (caro in tutti i sensi probabilmente, viste quelle bustine bianche che ti faceva trovare nella cassetta delle lettere, “Mi raccomando, donate i centoni al Centro Pastorale!”, certo come no. E comunque anche i suoi successori l’avrebbero fatto in seguito, ma quella dei suoi successori è un’altra storia).

Comunque, il caro Don Giuseppe era solito, prima e dopo la consueta lezione di catechesi, aspettarci al cancello del Centro Pastorale sorto coi nostri centoni, e pronunciare la frase che dà il titolo a questo blog appena sorto ma senza centoni:  FATE LE COSE BENE.
Sebbene il Don Giuseppe non avesse il tocco gentile (i suoi scappellotti nessuno di noi gradiva riceverli, ve l’assicuro), le sue parole erano molto efficaci, visto che tutt’ora mi ritornano in mente come un mantra. Ok, con questo non vuol dire che io faccia sempre le cose bene, però posso convincermene da oggi in poi. Dopotutto, anche le cose fatte male possono essere fatte pienamente male, giustamente male, del tutto male. Bene male insomma.